Comprensione della cultura locale, presenza e relazione personale, competenza tecnica. Sono questi, secondo Nicola Scudella, Responsabile commerciale Tecnopool per Nord America e Canada, i macrofattori che che hanno permesso la conquista di un posto nel mercato nordamericano del food processing.
Un successo frutto di una specifica strategia che ha premiato l’azienda veneta.
Scudella, Area Manager: «Con gli americani? Il segreto è la fiducia.»
«Quando sono stato incaricato di occuparmene, l’area commerciale USA e Canada era in uno stadio sostanzialmente embrionale. Oggi è il nostro secondo mercato estero per volumi» racconta il responsabile. «Tra l’altro è il comparto in cui abbiamo segnato tutti i nostri record per dimensioni di impianti. Come lo stabilimento Kraft a Minneapolis che raffredda 10.000 kg/ora di Velveeta Cheese. Praticamente tutto il formaggio Velveeta degli USA è processato da un nostro impianto. Un progetto che ha richiesto due anni di lavoro per arrivare a completamento. Una sfida continua in un’arena commerciale grande come l’Europa e molto impegnativa».
Quello nordamericano infatti è considerato un mercato ad alte barriere d’ingresso. Racconta Scudella: «Gli americani sono molto protettivi verso il Made in USA, un po’ come siamo noi in certi settori tipici italiani, come il food. La sfida è superare questa resistenza iniziale nei confronti del prodotto estero.
È vero da una parte che il prodotto italiano ha i suoi punti di forza anche qui negli States. Il design italiano, per esempio: rispetto all’impiantistica americana, che tende sempre a essere un po’ sovradimensionata, il nostro approccio progettuale è più razionale e quindi ottimizzato nei costi. Un altro punto a favore è la reputazione del distretto produttivo di cui facciamo parte: ogni volta che ci presentiamo a un potenziale cliente beneficiamo di una credibilità costruita nel tempo da tante aziende della zona che operano con qualità nella food technology. Una sinergia virtuosa che aiuta tutti: lavorare bene è una garanzia di successo per l’intero comparto.»
Se la qualità italiana è sicuramente un buon punto di partenza, non sarebbe sufficiente senza una solida comprensione delle particolarità di ogni mercato, a partire dalle più ovvie, come le barriere linguistiche e organizzative per finire con le dinamiche più squisitamente culturali.
Dinamiche di cui l’azienda era ben consapevole e che hanno orientato le sue scelte: «È stata importante la mia esperienza personale, avendo vissuto negli Stati Uniti dai 15 anni in poi: un background che ha spinto l'azienda, dopo un periodo di gavetta in Europa e Sudamerica, a concedermi un ampio margine d'azione nell’organizzazione del lavoro» aggiunge il sales manager.
Ma quali sono le chiavi del successo per un’azienda italiana negli Stati Uniti?
L’approccio degli italiani al business, il modo di vendere italiano, piace molto.
«In fondo la trattativa commerciale è un’arte che rispecchia lo spirito di un popolo: noi italiani abbiamo un certo stile, un modo cortese e affabile di avanzare le richieste, per certi versi anche più calcolato. Gli americani invece apprezzano la chiarezza: meno strategia un cliente percepisce, più sente di capirti bene e prima si chiude il progetto. Che non vuol dire che siano controparti ingenue: sanno benissimo difendere le proprie esigenze, magari giocando sul misunderstanding. Non c’è un modo giusto o sbagliato, ma certo ignorare queste differenze renderebbe tutto difficile. Fa parte del gioco, e in tutta onestà io non ho mai visto in vita mia una trattativa che non avesse qualche insidia».
Chiaramente, la fiducia va non solo conquistata, ma meritata sul campo
«Una cosa su cui ho sempre spinto molto, parlando di presenza sul campo, è l’importanza di una rete capillare sia commerciale, con agenti motivati, che di assistenza al cliente. Negli USA il service locale è un bisogno molto sentito: per questo abbiamo studiato varie soluzioni di servizio che arrivano ad ogni cliente. Laddove non ci è possibile intervenire direttamente, siamo in grado di erogare manutenzione e customer care con un ufficio ricambistica e affiancamento ai montatori locali. Lo scopo di tutto è che il cliente si possa sempre sentire seguito nelle sue necessità da un partner altamente specializzato».
Infatti un altro fattore fondamentale, per un’azienda che fornisce sistemi articolati di total food processing, è l’alto profilo di competenza tecnica. Ben oltre, com’è comprensibile, i reparti di progettazione e sviluppo, ma fin dalle prime fasi del rapporto con il cliente.
Contesti come quello di Tecnopool, con soluzioni impiantistiche esclusivamente custom made, acquisiscono credibilità con un corpo commerciale preparato sugli aspetti tecnici. Non solo in termini di mera reputazione ma per i vantaggi concreti che questo know-how procura al cliente.
«Per fare un esempio - dice Scudella - su nostro consiglio la Kraft ha risparmiato somme importanti sull’impianto di Minneapolis grazie a soluzioni intelligenti a livello di frigorie.
Un altro caso tipico sono le aziende che in presenza di grossi ordinativi si trovano a dover garantire in breve tempo regimi produttivi superiori alla norma e rischiano, senza un’adeguata consulenza, di realizzare impianti sovradimensionati che, superata l’emergenza, non ripagano il costo di realizzazione. Anche in questo caso il confronto con un partner preparato aiuta a scegliere la giusta dimensione sia d’impianti che d’investimenti».
Un altro motivo per cui la competenza tecnica è essenziale nella scelta delle tecnologie alimentari, è il fatto che la qualità del prodotto finale è il risultato di un processo produttivo che coincide con la progettazione dell’impianto stesso. In breve, un buon prodotto è il frutto di un buon progetto d’impianto.
Altro esempio delle differenze fra Italia e il Nordamerica è la richiesta di appartenenza alle varie associazioni di categoria, per esempio, nella panificazione c’è l’American Society of Baking: «Lavorare per un loro membro è l’accreditamento più sicuro e un lasciapassare per ogni futura trattativa. Infatti, se ci pensiamo bene in qualsiasi mercato le aziende prestano più fiducia a chi si è già fatto valere e rispettare da soggetti autorevoli della loro categoria».
Queste dinamiche culturali non fanno che confermare l’importanza del fattore umano, l’elemento di relazione personale che resta imprescindibile.
«Alla fine la vera trattativa inizia quando si crea l’intesa, quindi per vendere in un mercato bisogna andarci. - ribadisce Scudella - Io passo in media sei mesi l’anno in America, perché non c’è sostituto per la presenza e il contatto diretto.»
Per questo l’anno in corso, con la situazione particolare del Covid, ha rappresentato un ulteriore banco di prova.
«Se penso che durante il lockdown abbiamo chiuso un contratto con un grosso leader come Artisan Chef per tre linee bakery, sono ovviamente soddisfatto di come abbiamo ripensato i processi per gestire la crisi - riconosce Scudella - ma se guardiamo alla sua genesi, questo risultato ribadisce che il nostro lavoro è comunque basato sul rapporto diretto. L’esito del progetto è stato possibile grazie alla fiducia costruita nei contatti e nelle trattative intavolate con il cliente prima della chiusura forzata, perfezionandosi poi con riunioni giornaliere da remoto».